La leadership non è un tratto biologico né un semplice ruolo formale. È un fenomeno relazionale che prende forma nell’incontro tra l’identità personale e il riconoscimento altrui. Un processo che si realizza nella relazione con l’altro, ma che trova fondamento, in modo altrettanto profondo, nella relazione con sé.
Questa doppia radice — interna ed esterna — è ciò che rende la leadership un’esperienza identitaria complessa, non riducibile a competenze, ruoli o caratteristiche individuali. Per comprenderla davvero, occorre guardare al modo in cui il sé e l’altro si intrecciano nel definirla.
Già Max Weber, in Economia e società, aveva chiarito che il carisma — spesso considerato la forma più potente di autorità — non è una qualità intrinseca dell’individuo, ma un attributo conferito da chi lo segue. Il leader è tale non per essenza, ma per effetto di un riconoscimento sociale: un credito di fiducia non definitivo attribuito dai follower.
Sulla stessa linea, Robert Lord e colleghi (1984; 1990; 1991) hanno formalizzato la teoria dei prototipi di leadership, mostrando come le persone tendano ad assegnare il ruolo di guida a chi incarna i tratti e i comportamenti attesi in un determinato contesto. In questa prospettiva, la leadership si configura come un processo percettivo, basato sulla coerenza tra immagine individuale e aspettative collettive. Più un soggetto rispecchia il prototipo implicito di leader di quel specifico contesto, più sarà percepito come tale.
Tuttavia, questo approccio rischia di trascurare una dimensione altrettanto cruciale: quella dell’auto-percezione. Accanto alla legittimazione esterna, infatti, esiste una forma di legittimazione interna che gioca un ruolo fondamentale nel modo in cui si esercita la leadership.
Studi dei primi anni 2000 (Day & Halpin, 2004; DeRue & Ashford, 2010; Zheng & Muir, 2015) hanno mostrato come per esercitare una leadership autentica ed efficace non basti essere visti come leader: è necessario, prima ancora, sentirsi tali. Quando questa identificazione si radica nello schema del sé — come indicano DeRue et al. (2009) e Day & Lance (2004) — diventa un potente motore motivazionale e comportamentale. L’individuo inizia ad agire in modo coerente con l’identità che si attribuisce: prende parola, assume responsabilità, propone visione. La convinzione interiore si trasforma in azione.
Ma questo processo non si esaurisce nella dimensione soggettiva: è nella relazione con l’altro che l’identificazione trova conferma o viene messa in discussione. Talvolta, sono proprio i segnali provenienti dall’ambiente — gesti di fiducia, sguardi di attesa, disponibilità a seguire — a innescare una presa di coscienza: forse sono io colui che può guidare. E una volta accolta questa possibilità, la persona lavora per consolidarla, sintonizzandosi sui riscontri ricevuti, modulando il proprio agire, stabilizzando progressivamente il proprio ruolo.
Possiamo allora reinterpretare in chiave identitaria il celebre assioma cartesiano: cogito sum princeps, ergo sum. Penso di essere un leader — o di poterlo diventare — dunque agisco come tale; e, nel farlo, accogliendo i riscontri che ricevo, lo divento. Non per effetto magico, ma perché il pensiero che si ha di sé orienta l’azione, e l’azione, a sua volta, si nutre del rispecchiamento nell’altro, rafforzando l’identità e validandone il ruolo.
In definitiva, possiamo affermare come la leadership sia un processo riflessivo e intersoggettivo: vive tra l’“io” e il “noi”, tra la soggettiva auto-definizione e l’eco che questa genera nel riconoscimento degli altri. È un equilibrio dinamico tra ciò che si sente di essere e ciò che si viene autorizzati a rappresentare.
Un’esperienza, dunque, che si coltiva nella continua oscillazione tra interno ed esterno, tra intenzione e percezione, tra identità e legittimità.