“Conosci te stesso”. Una frase che attraversa secoli e culture, che ha guidato intere visioni del mondo e continua ancora oggi ad agire silenziosamente, soprattutto nei momenti di passaggio, quando sentiamo la necessità di ritrovare un punto fermo, una direzione, una qualche forma di coerenza. Ma cosa significa davvero conoscersi?

Se è vero che la storia del pensiero ha offerto numerose risposte alla questione del conoscere sé stessi, è anche vero che molte di esse possono essere lette come variazioni su due grandi direzioni.

Da un lato, l’idea che conoscere sé stessi significhi togliere, alleggerire, spogliarsi del superfluo. In questa prospettiva, il sé autentico non si costruisce, ma si rivela. È la via dell’artigiano, che scolpisce sottraendo, come nella tradizione taoista, dove il ritorno allo ziran — la spontaneità naturale — è reso possibile solo dal creare vuoto, dall’eliminare ciò che è artificiale. In questa visione, la spontaneità non è altro che l’essenza che riaffiora quando l’interferenza si placa. Eppure, ci si potrebbe chiedere: è davvero “originaria” questa spontaneità? O è l’ultimo stadio di un apprendimento divenuto così fluido da sembrare naturale?

Dall’altro lato, c’è una visione diversa, che vede l’identità non come un’essenza da liberare, ma come un processo in continua trasformazione. Qui conoscere sé stessi non significa semplificare, ma espandere: accogliere la molteplicità del nostro essere, abitare diversi mondi — quello del passato, del presente e del futuro — in cui le nostre esperienze, memorie, desideri e timori contribuiscono a generare una narrazione in continua rinegoziazione. L’identità personale si costituisce così come una stratificazione narrativa e costruttiva: siamo, nello stesso tempo, ciò che siamo stati, ciò che sentiamo di essere ora, e ciò che potremmo (o non vorremmo) diventare, una pluralità che Hermann Hesse, nel lupo della steppa, ha definito in questo modo:

“In realtà nessun io, nemmeno il più ingenuo è un’unità, bensì un mondo molto vario, un piccolo cielo stellato, un caos di forme, di gradi e situazioni, di eredità e possibilità.”

Ma questa molteplicità non riguarda solo il piano personale. Siamo anche ciò che siamo in relazione ai gruppi a cui apparteniamo: cittadini, studenti, professionisti, appartenenti a una cultura, a un genere, a una comunità. Le nostre identità sociali prendono forma attraverso l’appartenenza a questi gruppi, e diventano più o meno salienti in base ai contesti, alle dinamiche relazionali, al riconoscimento sociale che riceviamo. Ma non sono disgiunte dalla nostra identità personale: le due dimensioni si co-costruiscono, si riflettono e si influenzano a vicenda. È una circolarità dinamica, in cui il contesto plasma il soggetto, e il soggetto, a sua volta, interpreta e ridefinisce i contesti.

È in questa seconda visione che si manifesta in modo pieno l’epistemologia della complessità. Il sé non è un nucleo da scoprire, ma una configurazione emergente, situata, plasmata da feedback continui, influenzata da processi relazionali, culturali e simbolici. L’identità diventa allora un sistema complesso: aperto, mutevole, non linearmente determinabile.

Tuttavia, proprio in questa apertura risiedono anche le sue difficoltà. Perché se il sé è fluido e molteplice, allora può anche diventare sfuggente. La complessità, da un lato, ci descrive meglio; dall’altro, ci lascia esposti a un senso di instabilità. Le dinamiche identitarie più profonde si attivano spesso al di sotto del livello della nostra consapevolezza, e tentare di comprenderle razionalmente può trasformarsi in un atto di disorientamento. Come scriveva Paul Watzlawick, infatti, a volte “guardarsi dentro rende ciechi”.

Ecco che, proprio quando la complessità sembra offrirci una comprensione più accurata di ciò che siamo, può riemergere il desiderio opposto: trovare un centro, una stabilità, un principio ordinatore. Spogliarsi, in un certo senso, di tutto ciò che è troppo. Tornare al silenzio, alla forma essenziale.

È la tensione tra due strategie (apparentemente?) opposte: da un lato, la de-soggettivazione come via verso la spontaneità; dall’altro, la moltiplicazione dei sé come accettazione della nostra natura plurale e situata. La prima via promette radicamento, ma rischia di ignorare la dimensione contestuale e relazionale del nostro essere. La seconda ci restituisce un’immagine più fedele e articolata di noi stessi, ma ci lascia spesso senza punti di riferimento, immersi in una rete troppo vasta per essere pienamente compresa.

C’è, allora, una risposta? Sono davvero possibilità inconciliabili, o possono essere approcci complementari, da abitare in momenti diversi della nostra vita, a seconda dei nostri bisogni interiori?

La risposta, ammesso che ci sia, non si lascia afferrare facilmente. Forse perché non esiste un’unica via alla conoscenza di sé. Forse perché diventare sé stessi non è un traguardo, ma una tensione. Un passo nell’incertezza, tra ordine e disordine, tra apertura e forma, un equilibrio mai definitivo, ma sempre vivo

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